Vis-à-vis con la giornalista Giuliana Sgrena, donna forte, che può vantare una brillante carriera, non ha paura di dire le cose come stanno e andare a scavare per trovare la verità dei fatti. Abbiamo così scoperto più nel profondo la sua passione per i reportage di guerra, il lungo iter per raggiungere il successo e la testimonianza diretta di quel terribile 4 febbraio 2005, giorno del suo rapimento in Iraq.
Da dove nasce la passione di Giuliana Sgrena per il mondo del giornalismo? Quali sono le principali tappe della sua carriera?
Sinceramente da ragazza non pensavo che avrei voluto intraprendere la carriera giornalistica. Studiavo lingue all’università a Milano e mi interessavo principalmente di politica collaborando con il Movimento Studentesco. Scrivevo e pubblicavo i miei articoli sul bollettino “Fronte Popolare”: il mio compito era quello di seguire gli eventi in Spagna (allora c’era ancora Franco). Finita l’università mi sono spostata a Roma, dove collaboravo con il settimanale “Pace e Guerra”; scrivevo articoli e tenevo una rubrica mia.
In quel periodo ho collaborato anche per il coordinamento dei comitati per la pace contro l’istallazione degli euro-missili. Quando il settimanale ha chiuso, ho cambiato strada e ho firmato un contratto con la Rai per una trasmissione “Ora D”: un programma tutto al femminile nel quale si trattavano argomenti di vario genere, analizzandoli però dal punto di vista delle donne. La svolta è avvenuta nel 1988 quando sono stata chiamata per una sostituzione estiva presso la redazione de “Il Manifesto“, dove poi ho continuato a lavorare fino alla pensione nel 2008.
Il territorio in cui è nata (Val d’Ossola) ha influito sulla sua mentalità/carriera?
Obiettivamente devo dire di no. Ho fatto solamente le medie lì, perché il liceo linguistico l’ho frequentato a Stresa e poi mi sono subito trasferita a Milano per l’università.
Oltre al giornalismo, Giuliana Sgrena ha intrapreso anche la carriera di scrittrice, spesso a sostegno delle donne.
Esattamente. Girando così tanto il mondo ho raccolto moltissimo materiale valido. L’argomento di principale interesse per me è comunque stato quello di dare una voce a tutte le donne del mondo islamico, perché veramente raramente viene data loro la possibilità di farsi sentire. L’informazione oggi viene fatta dagli uomini e quella fatta dalle donne viene comunque percepita di minor valore.
Ci tengo però a sottolineare che tutte le donne islamiche lottano per i nostri stessi diritti: hanno gli stessi obiettivi e le stesse pretese per cui abbiamo lottato anche noi donne europee e per le quali continuiamo a lottare tutt’oggi. Tra l’altro vorrei far notare che ad esempio in Egitto già nel 1920 esisteva un movimento femminista e che la prima donna ministro è stata eletta nel 1956. In Italia la prima donna ministro invece ha avuto un posto in parlamento esattamente vent’anni dopo, nel 1976! Per cui in quel campo ci battono alla grande.
Le donne comunque non si sono mai arrese e mai lo faranno.
Come mai ha seguito delle zone di guerra così pericolose nella sua carriera da giornalista-reporter?
Lavorando per il Manifesto, ci venivano assegnate delle precise zone che noi studiavamo e seguiamo sia in periodo di pace che di guerra. Ogni giornalista aveva la sua zona specifica così da poter riuscire a seguirne tutte le vicende e poter poi dare una visione corretta ed obiettiva di tutto ciò che accadeva in quel paese. Per cui io ho seguito Algeria, Somalia, Afghanistan e Iraq. Sono zone che comunque ho sempre frequentato perché fortemente interessata, come detto prima, alla situazione delle donne. Io comunque rifiuto categoricamente la denominazione “inviata di guerra” perché noi siamo dei reporter sempre, non solo nei periodi di guerra.
Ritiene che sia un lavoro pericoloso?
Diciamo che il reporter si espone in prima persona; è il senso profondo di questo mestiere. Forse oggi è un po’ più pericoloso di una volta perché chi fa la guerra non vuole testimoni. Spesso sono gli stessi editori che non vogliono che gli inviati si espongano eccessivamente: capita infatti che il reporter rimanga in albergo e si faccia raccontare e riportare gli avvenimenti dell’esterno oppure esiste il metodo “embedded”: cioè il giornalista va sul campo con una truppa di militari. Ma così facendo sottoscrive tacitamente un accordo di censura attraverso il quale concorda di scrivere solamente certi avvenimenti a certe condizioni.
Io personalmente sono contraria perché così cambia il modo di fare giornalismo e diventa militarizzato. Se vogliamo guardare, ad esempio oggi, in Italia tutte le notizie che ci arrivano provengono da Erat: un unico filo di informazione, non ne assicura la validità né la credibilità. Altra cosa da chiarire: ho sentito spesso la gente affermare che “Se vai in un luogo pericoloso e ti succede qualcosa, te la sei andata a cercare“. Ma se non ci fosse gente che fa questo mestiere, le notizie arriverebbero completamente distorte da chi ha interessi a far arrivare solo ciò che non dà fastidio.
Noi ricerchiamo la verità a tutti i costi.
Ultima domanda fondamentale: come ha influito il rapimento sulla vita di Giuliana Sgrena?
Quell’esperienza ha completamente cambiato la mia vita. Stare a contatto così da vicino con la morte fa cambiare il rapporto che hai con la quotidianità. Ogni volta che sentivo la porta aprirsi pensavo che stessero venendo ad uccidermi. Oggi vivo alla giornata, non faccio progetti per il futuro, non ci riesco. Nonostante questa rivoluzione nel mio modo di gestire la vita, il rapimento non ha cambiato il mio modo di fare giornalismo: continuo sulla mia strada. Dopo il rapimento ad esempio sono tornata in Iraq e Afghanistan per eseguire le elezioni.
Da quest’interessante intervista emerge:
il ritratto di una donna forte, indipendente, femminista, senza paura e soprattutto piena di passione per il suo lavoro. Giuliana Sgrena ancora oggi lotta per la verità, per i diritti delle donne islamiche soffocate da voci di uomini più forti e più violenti di loro e per la dignità del lavoro dei suoi colleghi reporter e per la giustizia.
[Intervista per Eco Risveglio – 2010]